IL “CASO FICARRA”-NELL’OPERA DI LEONARDO SCIASCIA DALLE PARTI DEGLI INFEDELI

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                                                                                               Una precisazione

 

                   Mi scuso con i lettori  di questo nostro sito web, alcuni dei quali hanno opportunamente fatto notare delle inconguenze nelle date……………Pertanto, chi scrive ha sentito l’autore….

L’articolo del prof. Gaetano Augello,  pubblicato sui social  senza data, unitamente al ricordo che ieri c’ è stato del Vescovo Ficarra, per iniziativa dell’attuale Parropco-arciprete Don Nazzareno Ciotta,  ha provocato giustamente  un  equivoco………ho sentito il prof Augello.

Doveroso precisare che si tratta di un articolo  del  1° giungo 2009 ..……sempre comunque del prof. Augello, che, a suo tempo, ,…….. da par suo, –  a mio giudizio, – tratta l’argomento da tutti i punti di vista, in maniera completa…….

E, proprio per questo,   questo articoilo da me  è stato  subito ripreso ……….Diego Acquisto

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 IL “CASO FICARRA” – NELL’OPERA di Leonardo Sciascia  “DALLE PARTI DEGLI INFEDELI”

  di GAETANO AUGELLO

1°-giugno 2009

La concomitanza di due ricorrenze, i cinquant’anni dalla morte del vescovo Angelo Ficarra (10 luglio 1885 – Canicatti’ – 1° giugno 1959) ed i trenta dalla pubblicazione dell’opera Dalle parti degli infedeli di Leonardo Sciascia (ottobre 1979) hanno suscitato nuovo interesse e attenzione critica da parte degli studiosi su un caso che potremmo definire politico-religioso.

Il 2 agosto 1957, mentre si trovava a Canicatti’ per il consueto periodo di ferie estive, il vescovo di Patti Angelo Ficarra sul Giornale di Sicilia di Palermo lesse questa notizia: “Il Santo Padre si è benignamente degnato di accogliere le dimissioni presentate da Sua Eccellenza Reverendissima monsignor Angelo Ficarra da vescovo di Patti e lo ha promosso al contempo alla sede titolare arcivescovile di Leontopoli di Augustamnica”.

Oltre che l’interessato, che non era stato preventivamente informato di quanto stava per accadergli, la notizia colpì l’opinione pubblica sia perché allora i vescovi restavano sulla loro cattedra fino alla morte ed i rari casi di “destituzione” erano determinati da gravi motivi, sia perché il provvedimento colpiva un vescovo di profonda cultura e grande spiritualità. Angelo Ficarra soffrì profondamente nel suo intimo per quanto accaduto ma giammai se ne dolse pubblicamente; ad una vecchietta che gli chiese dove fossero andati a finire mitra e pastorale rispose con assoluta serenità, limitandosi ad una considerazione propria di un uomo di grande fede: “Anche da Canicattì si può andare in paradiso”. Parafrasava in tal modo una massima che il suo S. Girolamo aveva rivolto al presbitero S. Paolino: Et de Hierosolymis et de Britannia aequaliter patet aula coelestis. Canicattì nell’immaginario collettivo nazionale era diventata, a causa del suo nome davvero originale, l’estrema periferia dell’orbe terrestre, un po’ come era considerata la Britannia nel mondo classico.

Dopo la morte del presule la vicenda, come è naturale, sarebbe stata ben presto dimenticata dai più se Leonardo Sciascia, dopo aver ricevuto da parte dei nipoti del vescovo il carteggio relativo alla dolorosa vicenda, non avesse deciso di scrivere sull’argomento una delle sue opere più significative.

Il grande scrittore di Racalmuto non intervenne per vis polemica contro la Chiesa o per piaggeria nei riguardi dei familiari del vescovo: la sua fu una decisione forte e immediata, determinata dall’assonanza riscontrata tra la sua visione laica del mondo e la spiritualità moderna e aperta del vescovo canicattinese. Sciascia evidenziò con forza i motivi alla base della sua scelta a conclusione dell’opera, scritta di getto nella sua residenza estiva di contrada Noce tra il 2 ed il 31 agosto 1979: “… non avrei mai creduto che ad un certo punto della mia vita mi sarei trovato a raccontare la storia di un vescovo (siciliano e titolare di una diocesi in Sicilia) apologeticamente ed ex abundantia cordis: senza distacco, senza ironia, senza avversione. Ma sbaglierebbe chi, leggendo questo piccolo libro, lo giudicasse risultato di una mia evoluzione o involuzione (secondo la parte da cui lo si giudica). Si tratta semplicemente di questo: che l’avere per tanti anni e in tanti libri inseguito i preti “cattivi” inevitabilmente mi ha portato a imbattermi in un prete “buono”. (Leonardo Sciascia, Dalle parti degli infedeli, Palermo, Sellerio, 1979, pp. 77-78)

Sciascia trovò delle assonanze tra le sue Feste religiose in Sicilia e le Meditazioni vagabonde del Ficarra. Nella prima opera si sosteneva la tesi di una sostanziale refrattarietà dei siciliani alla religione cristiana; il libro, diceva Sciascia, non fu gradito ai più: “Per quel che cominciava a correre e poi corse non fu apprezzato a sinistra e si ebbe il disdegno della destra”. (Leonardo Sciascia, ibidem, p. 78) Meditazioni vagabonde fu il titolo dato dal Ficarra a quaranta articoli pubblicati (dal n. 144 del 7 febbraio 1909 al n. 202 del 30 giugno 1914) sul Lavoratore, un quindicinale fondato da don Nicolò Licata, arciprete di Ribera e protagonista con Luigi Sturzo e Michele Sclafani del movimento politico-sociale cattolico siciliano precursore del Partito Popolare Italiano. Anche l’opera del vescovo non fu apprezzata negli ambienti curiali al punto che poté essere pubblicata soltanto postuma. (Angelo Ficarra, Le devozioni materiali: Psicologia popolare e vita religiosa in Italia, Palermo, Edizioni La Zisa, 1990)

Nei quaranta articoli il Ficarra, allora vicario cooperatore dell’arciprete Licata, condannava con forza le modalità paganeggianti di molte feste siciliane, vere e proprie continuazioni delle antiche feste dionisiache rurali; il feticismo praticato verso talune immagini di santi; lo spagnolismo di tante cerimonie e tradizioni e l’uso di musiche, “marce ed ariette più o meno lascive ed invereconde (Il Lavoratore, Anno VIII, Ribera, 7 novembre 1909); lo strapotere delle confraternite laicali, “vero flagello di certi paesi e di certe chiese” (Il Lavoratore, Anno VIII, Sciacca, 31 agosto 1909), interessate soltanto a conservare privilegi e prebende. Il Ficarra parlava di “materialismo religioso” e di “materializzazione dell’idea religiosa” (Il Lavoratore, Anno IX, Ribera, 9 gennaio 1910) e sosteneva la tesi di un popolo siciliano tutt’altro che cristiano: “Quante scorie e quante miserie in questa povera anima siciliana, nei cui strati più profondi freme e si agita tuttora il greco idolatra e il romano superstizioso, il musulmano sensuale e lo spagnolo sfarzoso” (Il Lavoratore, Anno VIII, Ribera, 22 ottobre 1909). “La vita religiosa del nostro popolo” aggiungeva “è ammalata, profondamente inquinata” (Il Lavoratore, Anno VIII, Sciacca, 2 maggio 1909).

Queste considerazioni anticipatrici di una concezione della religiosità davvero moderna ed alcune pubbliche prese di posizione che il Ficarra adottò in anni successivi determinarono in Leonardo Sciascia un sentimento di profondo rispetto ed oserei dire una qualche affinità spirituale. In due occasioni il vescovo evidenziò in maniera particolare la sua spiritualità al di sopra e al di fuori di particolari contingenze politiche. Nell’ottobre del 1938 a Librizzi, piccolo centro collinare dell’entroterra pattese, si svolse una vicenda che interessò il vertice nazionale del Partito Fascista e perfino la Segreteria di Stato del Vaticano guidata allora dal cardinale Eugenio Pacelli che dopo pochi mesi sarebbe diventato papa Pio XII. Le autorità fasciste  locali volevano profittare della festa della  patrona, la Madonna della Catena, per proiettare nella pubblica piazza due filmati apologetici del regime. Angelo Ficarra, attuando peraltro una precisa disposizione adottata nel 1936 dall’Episcopato Siculo, sospese la festa per impedire la proiezione.

Nell’estate del 1950 il Ficarra, unico tra i vescovi della Sicilia, aderì all’Appello per la Pace di Stoccolma, promosso dal movimento Partigiani per la Pace  e sottoscritto da illustri personalità di ogni parte del mondo. Ma, sia nel primo che nel secondo caso, sarebbe sbagliato interpretare le scelte del vescovo come scelte politiche poiché si trattava di decisioni esclusivamente e squisitamente religiose.

Leonardo Sciascia in Dalle parti degli infedeli analizzava i fatti che avrebbero determinato da parte del Vaticano la destituzione in contumacia del vescovo. Lo scrittore, nell’esaminare il carteggio tra la Santa Sede e il Ficarra, individuava come fattore scatenante e decisivo alla base delle decisioni assunte dalla curia romana e per essa dal carmelitano scalzo cardinale Adeodato Giovanni Piazza, potente prefetto della Sacra Congregazione Concistoriale (oggi Congregazione per i Vescovi), il mancato appoggio alla Democrazia Cristiana in occasione delle elezioni comunali di Patti del 20 ottobre 1946 e del 3 aprile 1949 ed in quelle politiche del 18 aprile 1948.

Nelle prime elezioni amministrative dopo la caduta del fascismo a Patti risultarono eletti 24 consiglieri socialcomunisti e 6 liberali e del movimento dell’Uomo Qualunque: nessun seggio andò alla Democrazia Cristiana. Nel 1949 invece i 24 seggi della maggioranza consiliare andarono alla cosiddetta Concentrazione Pattese (monarchici, liberali, democratici del lavoro, socialdemocratici e indipendenti di destra); i 6 seggi della minoranza andarono al MSI, agli indipendenti di destra e alla lista Gruppo democristiani da non identificare con la DC ufficiale. Sia nel primo che nel secondo caso la sconfitta fu attribuita da molti al mancato impegno del Ficarra in favore della DC. Di lì cominciarono i guai del vescovo contrassegnati da frequenti lettere anonime, la prima delle quali, inviata nel marzo 1947, si concludeva con questo interrogativo: “Che cosa ci sta a fare ancora qua Monsignor Ficarra?”. La lettera era accompagnata da un articolo dell’Osservatore Romano in cui si esaltava la figura del cardinale Gaetano Bisleti “splendente esempio di vita sacerdotale… inesorabile nell’impedire l’accesso al Sacerdozio di coloro che egli giudicava inadatti”. In seguito fu fatto circolare un libello dal titolo Elezioni Amministrative pattesi 1946-1949: il Responsabile della disfatta della Democrazia Cristiana. Il Responsabile, con la maiuscola, era ovviamente il vescovo.

Occorre osservare però che la disfatta della DC nelle amministrative di Patti fu dovuta soprattutto alla pessima gestione del partito cattolico da parte del suo prete-segretario, don Gaetano Calimeri, dal carattere scontroso e sempre in urto non solo col Ficarra ma anche con i vescovi che lo avevano preceduto, Ferdinando Fiandaca e Antonio Mantiero. La tesi di Leonardo Sciascia non appare del tutto convincente dal momento che nella stessa Patti in occasione delle elezioni politiche del 1948 la DC ottenne da sola 46.000 voti contro i 50.000 di tutti gli altri partiti (tra questi il Blocco Popolare e cioè i socialcomunisti ne ottennero appena 13.500). Certamente Angelo Ficarra non esternava il suo appoggio alla DC in maniera plateale, tenendo dei comizi, come allora usavano molti uomini di Chiesa, o partecipando a manifestazioni di partito.

Tuttavia l’impegno del presule in favore della DC è documentato con tutta evidenza da una lettera del 17 marzo 1948 inviata a Roma al presidente nazionale dell’Azione Cattolica: in essa lamentava di non aver potuto fare di più a causa della poca disponibilità di risorse, anche di carattere finanziario: “Illustrissimo Signor Presidente, alla fine di febbraio abbiamo ricevuto 25 buoni di benzina e siccome erano scaduti li abbiamo rimandati con lettera raccomandata del 5 marzo, perché fossero rinnovati. Ora siamo a marzo inoltrato e ancora non arriva nulla. La prego per favore di provvedere in merito con urgenza: ogni ritardo riesce assai dannoso. Dica a mons. Urbani che noi facciamo tutto il possibile, e nei 40 comuni di questa diocesi si spera che i marxisti non avranno alcuna vittoria. Ma qui ci tocca di lottare anche contro i massoni, i sedicenti monarchici e i fascisti camuffati”. (Gaetano Augello, Angelo Ficarra – La giustizia negata, Canicattì, Edizioni Cerrito, 2008, p. 118)

Davvero disimpegnato questo vescovo che interviene anche sui buoni di benzina! Certamente Leonardo Sciascia non conosceva questo e altri documenti da cui risulta, pur nella sua atipicità rispetto a quello di altri presuli, l’appoggio del Ficarra alla linea di contrasto al comunismo portata avanti in quegli anni dalla Chiesa. Occorre osservare che al presunto disimpegno politico del Ficarra si fa riferimento esplicito soltanto in una delle lettere del card. Piazza, quella del 6 maggio 1949; la lettera peraltro appare dettata dalla necessità di acquisire informazioni sull’andamento delle elezioni, così come d’altra parte avveniva con tutte le diocesi italiane. D’altronde che le accuse relative alle vicende politiche non fossero determinanti nell’atteggiamento del Vaticano è confermato dalla durata del processo che andò avanti per molti anni. In caso contrario la Chiesa avrebbe agito con ben altra tempestività. Quando si pervenne alla destituzione del vescovo la situazione politica si era nettamente evoluta con una diminuzione della pressione della Chiesa sulla vita del Paese. E lo stesso Sciascia riconosce che la rimozione del Ficarra nel 1957 non era necessaria, ovviamente dal punto di vista della gerarchia ecclesiastica, così come lo sarebbe stata tra il 1946 e il 1953.

A seguito dei chiarimenti forniti dal vescovo, il Piazza nelle successive missive faceva soprattutto riferimento alla condotta morale del clero e in generale alla gestione pastorale della diocesi da parte del Ficarra, attribuendone le cause a motivi di salute: “Forse le non più floride condizioni di salute di Vostra Eccellenza possono essere la causa non ultima di un simile stato di cose, nonostante lo zelo ed il vivo interessamento di Vostra Eccellenza”. Espressioni queste contenute nella lettera del 25 ottobre 1949, una lettera particolarmente feroce, un vero capolavoro di ipocrisia e affettata gentilezza da parte del porporato, pronto nella sostanza a ferire senza pietà, disponibile a tutti gli eufemismi pur di arrivare a quanto aveva già irreversibilmente deciso: “All’Eccellenza Vostra non sfuggirà la gravità delle segnalazioni pervenute e pertanto, per dovere d’ufficio, debbo nuovamente richiamare la considerazione di Vostra Eccellenza ed invitarLa a meditare coram Domino sulle Sue responsabilità di Vescovo dinanzi alla Chiesa e alle anime… Ed è per questo che questa Sacra Congregazione è pronta a venirLe incontro qualora Vostra Eccellenza ritenesse di voler prendere una qualche decisione per il maggior bene delle anime. Voglia pertanto l’Eccellenza Vostra aprirmi confidenzialmente il Suo animo e farmi conoscere quelle decisioni che il Signore non mancherà di ispirarle”.

Considerazioni meramente pastorali sono presenti in altre lettere del cardinale Piazza, in particolare in quelle del 20 aprile 1950 e del 10 gennaio 1952: riflessioni riguardanti il numero dei sacerdoti ed il loro grado di cultura, la pratica religiosa del popolo e la fedeltà alla morale cristiana, la presenza capillare in diocesi di organismi come l’Azione Cattolica, le ACLI, il CIF, l’Onarmo, la disciplina e la condotta morale del clero, la vita parrocchiale, la direzione del Seminario, ecc.

In Vaticano arrivavano da Patti voci allarmate sulla gestione della diocesi da parte di un gruppo di sacerdoti agrigentini, e canicattinesi in particolare, accolti con eccessiva benevolenza dal vescovo. A loro fu affidata l’amministrazione dei beni della curia suscitando vivo malcontento tra i religiosi locali. La gestione dei beni e dei fondi che allora giungevano in abbondanza dagli Stati Uniti non fu sempre corretta: il vescovo non era ovviamente al corrente di quanto di negativo gli accadeva intorno ma fu chiamato a giustificarsi per culpa in vigilando.

A tutto ciò sono da aggiungere “la speciale e difficile configurazione geografico-antropologica ed economico-finanziaria della diocesi e una certa inevitabile stanchezza progressiva manifestatasi nella stessa persona del vescovo Ficarra; tutti questi elementi contribuirono certamente a creare in alcuni la convinzione che fosse opportuno un avvicendamento al vertice della diocesi”. (Alfonso Sidoti, Mons. Angelo Ficarra tra cronaca e storia, in AA. VV., Mons. Angelo Ficarra Vescovo di Patti, Agrigento, Sarcuto, 1999, p. 101).

Altre tappe importanti nel calvario del Ficarra furono l’imposizione, il 22 aprile 1953, di un vescovo coadiutore sedi datus nella persona di mons. Giuseppe Pullano e la promozione dello stesso ad amministratore apostolico sede plena ad nutum Sanctae Sedis in data 2 marzo 1955. Il Ficarra era ormai vescovo di Patti solo formalmente mentre tutti i poteri di giurisdizione erano esercitati dall’amministratore apostolico. Una situazione umiliante, aggravata anche da una difficoltosa coabitazione all’interno del Palazzo Vescovile. Si volevano ad ogni costo imporre al Ficarra le dimissioni e, poiché queste erano rifiutate come frutto di estrema ingiustizia e tardavano a pervenire, il 13 dicembre 1954 il cardinale inviò una lettera che era un vero e proprio ultimatum: “… non vedo affatto l’opportunità che l’Eccellenza Vostra venga a Roma. Rimango invece in attesa che Vostra Eccellenza voglia farmi conoscere, al più presto, la data – che volentieri concedo possa essere anche dopo le feste Natalizie – nella quale Ella desidera che venga attuata la rinuncia alla diocesi di Patti”.

Trascorsero le feste natalizie ma il vescovo rimase ancora al suo posto fino all’epilogo drammatico del 2 agosto 1957. Angelo Ficarra, rimosso da vescovo di Patti, fu promosso ad arcivescovo di Leontopoli, un’antica diocesi in terra egiziana, in partibus infidelium appunto. La promozione di una persona buona e mite, al punto da apparire assai debole, ad arcivescovo della città dei leoni apparve a molti, ed allo stesso Sciascia, un’oggettiva offensiva ironia: “Saremmo maliziosi a sospettare una certa malizia – da parte della curia vaticana, della Congregazione Concistoriale, del cardinal Piazza – nella nomina di monsignor Ficarra ad arcivescovo di Leontopoli?”. ( Leonardo Sciascia, op. cit., p. 84)

Il primo a percepire questa ironia sarà stato certamente il Ficarra, profondo conoscitore della cultura e delle lingue classiche. Prima della nomina a vescovo, Angelo Ficarra aveva associato all’attività pastorale di coadiutore a Ribera, di arciprete di Canicattì e di vicario generale della diocesi di Agrigento un’intensa e ricca stagione culturale. Il 27 giugno del 1914 presso l’Università degli Studi di Palermo conseguì col massimo dei voti e la lode la laurea in Lettere Classiche discutendo una tesi su La posizione di San Girolamo nella storia della cultura pubblicata successivamente in due volumi: il primo a Palermo nel 1916 e il secondo, col sottotitolo Lingua e stile di S. Girolamo e sua influenza culturale, ad Agrigento nel 1930. Seguirono La preghiera cristiana. Lettera di S. Agostino a Proba Faltonia e la traduzione dell’Akathistos, un inno antichissimo alla Madre di Dio..

Su incarico del sostituto della Segreteria di Stato del Vaticano mons. Federico Tedeschini, Angelo Ficarra pubblicò nel 1929 il Florilegium Hieronymianum con prefazione in latino del professore Felice Ramorino. L’antologia, adottata in molte scuole e università cattoliche, ebbe vasta risonanza nel mondo culturale e nei piani alti del Vaticano, al punto che nel 1921 la Sacra Congregazione Concistoriale chiese al vescovo dell’allora Girgenti Bartolomeo Lagumina di potersi avvalere del sacerdote come vice segretario della Segreteria delle Lettere Latine, un incarico che avrebbe portato il Ficarra alla porpora cardinalizia. Lagumina però rispose: “Vi prego di lasciarlo stare perché non saprei come sostituirlo come arciprete di Canicattì”. Questo diniego impedì al Ficarra di poter assolvere ad un incarico a lui più congeniale che non la gestione di una diocesi particolarmente difficile che gli sarebbe stata affidata su proposta del successore di Lagumina, Giovanni Battista Peruzzo. Nel 1928, su invito di Giovanni Gentile, il Ficarra compilò la voce Girolamo per l’Enciclopedia Treccani.

I venti anni trascorsi a Patti coincisero con un progressivo deterioramento fisico ed un esaurirsi della produzione letteraria del Ficarra: se si eccettuano le quattordici Lettere Pastorali nulla il presule poté o volle aggiungere alla sua produzione scientifica. E, quasi a voler riprendere l’antico percorso, tornato nella città natia dopo la destituzione, si recò più volte nella Tipografia Moderna dell’insegnante Giuseppe Alaimo per chiedere un preventivo di spesa per la pubblicazione delle Meditazioni vagabonde. Il suo vecchio sogno non poté realizzarsi, pare, per le condizioni di vera povertà evangelica in cui viveva.

Anche per questo Leonardo Sciascia sentì vicina alla sua sensibilità la figura del vescovo canicattinese. Le due ricorrenze cui abbiamo fatto riferimento all’inizio cadono proprio nel ventennale della morte dello scrittore: sono stati ripresi in questa occasione temi relativi alla sua spiritualità e ad una presunta conversione cui aveva fatto riferimento durante i funerali, con estrema mancanza di rispetto e di senso dell’opportunità, l’allora vescovo di Agrigento Carmelo Ferraro che sviluppò tutta la sua omelia sul discorso del buon ladrone affrancato dal peccato e pronto a salire in cielo con Cristo il giorno del venerdì santo. Argomentazioni queste basate soprattutto sul mancato rifiuto di esequie religiose da parte dello scrittore. Non hanno capito, questi convertitori post mortem, che nel non aver nulla deciso sui suoi funerali, Sciascia, con assoluta estrema coerenza, ha confermato la sua indifferenza, il suo estremo distacco da certe problematiche, indifferenza e distacco ben più pregnanti ed eloquenti di eventuali esplicite contrapposizioni.

E proprio in Dalle parti degli infedeli troviamo conferma del modo in cui Leonardo Sciascia si poneva nei riguardi di questi temi. Lo scrittore evidenziava come la lettera del cardinale Piazza al Ficarra  del 10 gennaio 1952, quella in cui per la prima volta si suggerivano al vescovo le dimissioni, contenesse sulla busta questa scritta a stampa: Sub secreto S. Officii: Violatio huius secreti, quocumque modo, etiam indirecte commisa, plectitur excommunicatione a qua nemo, ne ipse Eminentissimus Maior Poenitentiarius, sed unus Summus Pontifex absolvere potest; mentre quella del 16 luglio 1954, in cui si insisteva sul medesimo invito in maniera perentoria ed ultimativa, ne contenesse  un’altra dattiloscritta: Sub secreto pontificio. Lo scrittore con somma ironia si poneva il perché della differenza delle due scritte e dei due tipi di scomunica su lettere che in fondo chiedevano la stessa cosa: “E’ una domanda di pura curiosità, poiché noi – chi mi ha confidato queste lettere, io che le trascrivo per destinarle alla divulgazione la più vasta – sappiamo bene di stare incorrendo in entrambe: se due, diverse per qualità e per effetti, le censure sono. Comunque ne basta una: quella che la dicitura a stampa esaurientemente definisce… Si tratta, indubbiamente, della “scomunica maggiore”; quella che il Tommaseo – che se ne intendeva – dice che “separa interamente dalla Chiesa e da ogni comunione col resto dei fedeli” (mentre la “minore” interdice soltanto l’uso dei sacramenti)”.

E, dopo questo dettagliato e mordace excursus teologico, la conclusione che potremmo definire sommamente sciasciana: “Saremmo dunque, automaticamente, scomunicati? E vorrà l’attuale Sommo Pontefice assolvercene? Tutto considerato, è affar suo”. (Leonardo Sciascia, op. cit., p. 53) Ove lo scrittore, con l’espressione “tutto considerato”, riprende volutamente un’espressione tipica dello stile aulico della curia vaticana, omnibus perpensis, adoperata nella lettera già citata che il cardinal Piazza indirizzò al Ficarra il 13 dicembre 1954: “Dopo aver riflettuto a quanto l’Eccellenza Vostra Rev.ma ha potuto esporre, e tenendo in considerazione proprio la stessa lettera, non ho che a confermarLe, omnibus perpensis, quanto già significatoLe con precedente Officio in data 13 novembre c.a.”.

Leonardo Sciascia contrapponeva all’atteggiamento “ostinato e impaziente” di Adeodato Giovanni Piazza il “tergiversare”, in apparenza “dispettoso” ma nella realtà “pietoso”, del vescovo di Patti; una pietà “verso la Sacra Congregazione, verso lo stesso cardinale: che si accorgessero dell’errore, dell’ingiustizia che stavano commettendo”. Una “pietà” che il Ficarra sostanziava in quella preghiera che dovrebbe essere attività precipua della Chiesa: “… mi è facile immaginare che in quei giorni, in quegli anni, per quella vicenda, abbia tanto pregato: per la verità, per coloro che non la vedevano o che, vedendola, la calpestavano. Per la Chiesa visibile che troppo visibilmente adunava gli iniqui al tempo stesso che respingeva gli assetati di equità (e sarebbe dir meglio affamati, riferendoci ad anni in cui l’equità nemmeno si riusciva a vederla consustanziata in pane)”. (Leonardo Sciascia, op. cit. , pp. 54-55)

Angelo Ficarra, non più vescovo di Patti e quindi non più conte di Librizzi, barone di Gioiosa Marea, principe del SS. Salvatore, gran castellano del castello di Patti, abbattuto e umiliato dalla sua Chiesa, aveva ritrovato ed ulteriormente esaltato la sua dimensione di uomo di profonda fede e grande cultura.

1°-6-2009

                                                                                                                                                                                    Gaetano AUGELLO

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