118° anniversario della morte del Venerabile P. Gioacchino La Lomia

Pubblichiamo alcune annotazioni biografiche  del Venerabile P. Gioacchino La Lomia, 

 dagli scritti del   prof. Gaetano Augello

 

Gaetano La Lomia, colui che indossando il saio francescano sarebbe diventato frate Gioacchino, nacque a Canicatti il 3 marzo del 1831, dai cugini Eleonora e Nicolò.

Eleonora La Lomia, nata nel 1799 dal barone don Ferdinando Agostino e da donna Rosalia Li Chiavi, aveva sposato nella Chiesa Madre di Canicattì, l’undici ottobre 1818, Nicolò La Lomia nato da don Antonio, fratello di primo letto del barone Agostino, e da donna Maria Safonte.

Il papà di Eleonora, Ferdinando Agostino, era il secondo esponente della famiglia La Lomia a fregiarsi del titolo di barone. Il titolo era stato assegnato, con decreto del 23 maggio 1790, dal re Ferdinando I al papà di Ferdinando Agostino, il dottor Marco.

Eleonora e Nicolò La Lomia abitavano in uno dei palazzi di famiglia – all’angolo delle attuali vie Galileo Galilei e Risorgimento – un edificio che si sviluppa in ampi magazzini a piano terra e nel piano nobile esteso circa 240 metri quadri

Gaetano fu battezzato nella Chiesa Madre, allora l’unica parrocchia di Canicattì. Fu il secondo dei nove figli avuti da Eleonora e Nicolò La Lomia. Questi morì di polmonite, a soli quaranta anni, il 28 agosto del 1834.

Gaetano La Lomia trascorse i primi venti anni di vita in un’atmosfera serena, all’interno di una famiglia profondamente religiosa la cui figura centrale fu certamente mamma Eleonora, una donna particolarmente generosa con i poveri. Le testimonianze sono concordi nel rilevare anche la generosità di Nicolò La Lomia, definito come un vero “elemosiniere… molto versato nella carità”.

Non è dato sapere se Gaetano abbia avuto, come si usava allora nelle famiglie patrizie, un precettore. Pare di no e, molto probabilmente, le nozioni essenziali gli furono fornite dai familiari o da qualche religioso di uno dei conventi allora presenti in città. Gaetano decise di non intraprendere gli studi universitari che la posizione economica dei suoi gli avrebbe comunque potuto assicurare e non partecipò agli avvenimenti politici che pure interessarono molti membri della sua famiglia; prese parte alla vita mondana della sua città, pur se sobriamente e senza rinnegare in alcun modo i suoi ideali.

Tra il novembre del 1851 ed il febbraio del 1852 si verificò la svolta che avrebbe segnato per sempre la sua vita.

In quei mesi fu tenuta in città una Santa Missione dei padri cappuccini che coinvolse tutti i ceti sociali, come si usava allora. La missione del 1851-1852 fu certamente a Canicattì, nella prima metà dell’Ottocento, la più importante per durata e partecipazione popolare. Fu guidata da padre Michele da San Cataldo, già lettore (professore) di teologia e filosofia e, nel 1846, Provinciale dell’Ordine. Al termine fu particolarmente solenne la cerimonia di innalzamento della Croce nell’apposita cappella eretta all’inizio dell’attuale via Regina Elena.

Gaetano La Lomia partecipò a tutte le fasi della Santa Missione, fece amicizia con alcuni dei frati che invitò spesso nella sua casa e fu particolarmente scosso da una predica sul tema della morte tenuta nella chiesa di S. Diego. Il giovane trovò conferma ad una sensazione già percepita durante un momento di riflessione e preghiera nella cappella di famiglia. Nella chiesa di San Diego l’aspirazione di Gaetano alla vita religiosa, fino a quel momento non determinata nel suo sbocco finale, trovò una plastica raffigurazione nel saio cappuccino. La stessa sera informò la mamma della sua decisione: sarebbe diventato sacerdote regolare, ma non in uno degli ordini allora esistenti a Canicattì – carmelitani, domenicani, frati minori e conventuali – bensì in quello dei cappuccini, un ordine non presente in città con un proprio convento ma che tuttavia aveva annoverato in passato tra i suoi componenti alcuni canicattinesi.

Mamma Eleonora e gli altri familiari rispettarono la scelta del giovane ma, volendolo in ogni caso vicino a loro, cercarono di convincerlo a farsi prete secolare o monaco di un ordine presente a Canicattì; pressioni decisamente contrarie giunsero invece da parenti ed amici, convinti che il giovane, superata quella che per loro era una effimera infatuazione, sarebbe rimasto a godere degli agi della famiglia e della spensierata compagnia degli amici.

Gaetano andò avanti per la sua strada. Tramite il superiore della missione cappuccina di Canicattì, padre Michele da San Cataldo, chiese al padre Luigi da Termini, Provinciale dei Cappuccini, di essere ammesso nell’Ordine ma, secondo il padre Antonio Fontana, avrebbe in un primo momento ricevuto un diniego, anche per le forti pressioni in senso contrario esercitate da alcuni parenti.

Le iniziali difficoltà, sempre secondo il Fontana, sarebbero state superate grazie alle “premurose raccomandazioni”, presso i familiari ed i superiori dell’Ordine, da parte dell’esponente più illustre, in quegli anni, dei La Lomia: lo zio di Gaetano, il barone Gioacchino La Lomia, già ministro di Grazia e Giustizia e del Culto nel governo del re Ferdinando II di Borbone. Dopo alcuni mesi padre Luigi da Termini comunicò a Gaetano La Lomia di avere accettato la sua richiesta e lo invitò a raggiungere il convento dei cappuccini di Caccamo, allora dimora del Padre Provinciale.

Gaetano, per evitare altre pressioni da parte dei parenti, decise di raggiungere il convento di Caccamo all’insaputa di tutti, ad eccezione di un fedele collaboratore della sua famiglia, Nicolò Messina. Questi, in vista del lungo viaggio, preparò due mule e gli effetti personali strettamente necessari ma il giovane volle compiere a piedi il lungo tragitto. Da Caccamo, dopo un breve periodo, Gaetano tornò a Canicattì in attesa di essere assegnato ad una sede di noviziato.

Finalmente arrivò la tanto desiderata lettera: poteva entrare nel convento dei cappuccini di Girgenti per iniziare il noviziato.

Il 4 novembre 1852, alle ore 16,00, nella chiesa del convento di Girgenti Gaetano ricevette il saio francescano. Secondo la regola, fu invitato ad indicare il nome con cui da quel momento in poi sarebbe stato chiamato. Scelse il nome di fra Gioacchino Fedele da Canicattì. Completato l’anno del noviziato, fu ammesso dai superiori alla professione solenne. Il rito fu officiato, il 5 novembre 1853, da padre Samuele da Girgenti.

Emessa la professione, il giovane La Lomia era ormai un cappuccino a tutti gli effetti e poteva intraprendere una nuova tappa del suo percorso interiore: il cammino verso il sacerdozio.

In vista del nuovo impegno, frate Gioacchino fu trasferito al convento di Naro per intraprendervi gli studi preliminari, in particolare di filosofia, sotto la guida di padre Casimiro da Canicattì.

Da Naro si recava qualche volta nella vicina Canicattì per far visita alla mamma e agli altri familiari. Da Naro passò a Castronovo e, quindi, a Palermo per intraprendere gli studi di teologia in vista del conferimento del sacerdozio

A Palermo, il 2 giugno 1855, fu consacrato sacerdote. Subito dopo fu inviato nel convento cappuccino di Caltanissetta per riprendere e portare a compimento gli studi di teologia. Gli fu quindi assegnato il primo incarico pastorale: quello di vicario del convento di Sutera.

A Sutera padre Gioacchino rimase per circa due anni e lì maturò nel suo animo un’altra importante scelta: diventare missionario.

La richiesta di padre Gioacchino, di recarsi in terra di missione, fu accolta dal Procuratore Generale delle Missioni Cappuccine, padre Fabiano da Scandiano, con lettera del 9 giugno 1864. Padre Gioacchino si recò a Roma ove, nel Collegio di San Fedele, compì gli studi preparatori. Vi rimase per nove mesi; quindi, nel marzo del 1865, raggiunse il convento dei cappuccini di Morsiglia, in Corsica, ove rimase fino al gennaio del 1868.

Lo stesso fra Fabiano, il 9 gennaio 1868, destinava padre Gioacchino alle missioni cappuccine del Brasile. Giunto in terra di missione, padre Gioacchino ebbe l’incarico di cappellano militare durante la guerra combattuta contro il Paraguay da parte di Brasile, Argentina e Uruguay.

Terminata la guerra, padre Gioacchino tornò, nel 1871, a Rio de Janeiro; quindi iniziò l’attività missionaria tra gli indios del Rio della Puaja, nella zona interna del Brasile, nella provincia di Minas Geraes, caratterizzata dalla presenza di numerose miniere, in particolare di diamanti. Padre Gioacchino partecipò alla costruzione di alcuni aldeamenti, che erano dei villaggi destinati alle comunità di indigeni delle foreste. Da ricordare l’Aldeamentodell’Immacolata Concezione, lungo il fiume Munhuassù, il Sito di San Fedele e l’Aldeamento di Etuetto.

Padre Gioacchino fu grandemente stimato dall’allora imperatore del Brasile, Don Pedro II, che durante un suo viaggio in Europa, nel 1877, decise di recarsi a Canicattì ove incontrò la mamma del frate, Eleonora, ed altri parenti.

Nel gennaio del 1880 le condizioni di salute del missionario canicattinese spinsero i suoi superiori a farlo rientrare in Italia. A Roma fu accolto dal nipote Nicolò La Lomia che gli diede notizia della morte di mamma Eleonora, avvenuta il 15 aprile del 1879. Dopo alcuni giorni zio e nipote rientrarono in Sicilia e, poiché non era stata ancora costruita la stazione ferroviaria di Canicattì, furono accolti ad Aragona Caldare da una folla festante che li accompagnò a Canicattì.

Ben presto però padre Gioacchino decise di riprendere la vita monastica e, poiché a Canicattì non c’erano case religiose del suo ordine, decise di recarsi nel convento dei cappuccini di Sortino ove rimase fino all’estate del 1881. Tornato a Canicattì iniziò, insieme ad un altro cappuccino canicattinese, padre Antonio Fontana, la costruzione di un nuovo convento negli spazi attorno all’antica chiesetta della Madonna della Rocca, messi a disposizione dall’Amministrazione Comunale.

La costruzione del nuovo convento consentiva ai cappuccini di tornare a Canicattì ove in passato avevano curato un Ospizio, in uno stabile dell’allora via Marsala (oggi via Marconi). La realizzazione del convento fu importante anche dal punto di vista della bonifica di una delle periferie più degradate della città. Si pensi che il 21 giugno del 1870 la Giunta Comunale era stata costretta a chiudere proprio la chiesa della Madonna della Rocca, assieme a quelle di San Nicola e Santa Barbara, per fatti che vi si verificavano contro la pubblica moralità.

La chiesa della Madonna della Rocca era stata costruita tra Seicento e Settecento; nel 1796, dopo un periodo di abbandono con conseguente degrado delle strutture, il Decurionato decise di affidarla al sacerdote Giuseppe Merulla che, con l’appoggio dell’arciprete del tempo Gaspare Palumbo e grazie alle sottoscrizioni dei fedeli, operò dei restauri radicali. Nella chiesa il Merulla introdusse la devozione verso Maria SS. della Neve.

Nel 1872 la Giunta decise, su richiesta dei vari comunisti (così erano chiamati allora gli abitanti del comune) del quartiere, la riapertura della sola chiesa di San Nicola nelle domeniche e nei giorni festivi “dallo spuntare del sole a mezzodì”. La vigilanza e cura fu affidata al sacerdote Luigi Tiranno che si era fatto portavoce degli abitanti della zona.

Il 3 luglio 1873, con delibera di Giunta n. 28, fu riaperta anche la chiesa della Madonna della Rocca “nei giorni festivi dallo spuntare del sole sino alle ore 11”. Fu nominato responsabile il richiedente sacerdote Gangitano con l’obbligo di “non far sperimentare inconvenienti di sorta” (Archivio comunale – Delibera n. 33 del 16 dicembre 1872).

I lavori di costruzione del nuovo convento andarono avanti con celerità e, appena completate le prime stanzette, padre Gioacchino volle subito trasferirvisi, mentre padre Fontana preferì continuare a godere degli agi della vita familiare. La chiesetta della Madonna della Rocca fu arricchita di alcune statue, in particolare di quella di Santa Filomena, di cui padre Gioacchino era particolarmente devoto.

Padre Gioacchino iniziò il proprio apostolato dedicandosi con particolare cura all’amministrazione del sacramento della confessione. Tenne in numerosi comuni della Sicilia numerose Sacre Missioni e fu ovunque ammirato per le sue straordinarie virtù, in particolare per l’estremo rigore con cui osservava la regola francescana della povertà. La fama di santità circondò subito il fate canicattinese di cui divennero estimatori, fra gli altri, i vescovi di Girgenti Domenico Turano e Gaetano Blandini, il vescovo di Caltanissetta Ignazio Zuccaro e l’arcivescovo di Messina cardinale Giuseppe Guarino, nativo di Montedoro.

Nella primavera del 1905 le condizioni di salute di padre Gioacchino cominciarono a deteriorarsi. Il Venerdì Santo tenne, come soleva da dieci anni, il suo discorso dal Calvario, prima della Scinnenza, ma non poté partecipare alla successiva processione. Celebrò la sua ultima messa il 20 giugno 1905 all’altare del Crocifisso nella chiesa della Madonna della Rocca, così come era solito fare.

A metà luglio le sue condizioni di salute si aggravarono e per questo, all’interno del convento da lui fondato, fu trasferito in una cella più comoda. Scorgendovi un materasso di lana, esclamò: Ora cumincianu li cosi muoddi (ora incominciano le cose molli, le comodità). Scrisse il suo primo biografo padre Vincenzo Sena: “Dal 1895 al 1905, anni durante i quali stetti con lui, non mutò mai il sacconcino di crino e di paglia”.

Le condizioni di salute costringevano padre Gioacchino, ormai assai teso, a stare cinque minuti alzato e cinque a letto. Negli ultimi giorni, nonostante la malattia, chiese di essere posto sulla nuda terra, come testimoniato da fra Giovanni da Milocca.

Il 29 luglio 1905, la vigilia della morte, alle ore 16, mentre la folla di fedeli, nobili del paese e povera gente, sostava sul sagrato in preghiera, si fece condurre in chiesa, davanti al Santissimo. Voleva morire lì. Poi esclamò: “Non muoio ancora” e si fece riaccompagnare su, nella cella. Nella notte la folla aumentò sempre più.

L’indomani, domenica, la piazza era gremita. Si affacciò con grande fatica alcune volte e, infine, disse: “Figli cari, domani sarò in paradiso, andate in pace, tutte le grazie siano compiute per voi, io vi benedico”. Tracciò il segno della croce verso la folla e si accasciò sulla sedia a rotelle.

Al tramonto giunsero per salutarlo due confratelli, Emanuele Lauricella e Agostino Termini, e lo trovarono in agonia. Nella cella il padre Ignazio Mazzola da Polizzi Generosa recitava, ripetutamente, le orazioni dei moribondi. Il convento, la chiesa, la piazzetta erano pieni di gente in preghiera.

Intorno alle ore 20 del 30 luglio 1905, padre Gioacchino La Lomia concludeva, nel generale rimpianto, la sua feconda esistenza terrena.

La sera del 31 luglio fu eseguita, gratuitamente, l’imbalsamazione della salma a cura dello scienziato canicattinese dottor Antonino Sciascia che adottò un suo metodo particolare, risultato tuttavia per nulla efficace, come si sarebbe constatato in seguito durante alcune esumazioni della salma.

Il funerale fu celebrato nel pomeriggio del primo agosto. In piazza parlarono il sacerdote Giuseppe Pagano e, a nome della famiglia, il nipote avvocato Marco Testasecca. Il corteo si snodò per ben tre ore prima di giungere al cimitero. La salma, benedetta da padre Ignazio da Polizzi Generosa, a ciò incaricato dal guardiano del convento padre Vincenzo Sena, fu tumulata nella cappella gentilizia dei baroni La Lomia, in attesa che fossero espletate le pratiche per il trasferimento dal cimitero al convento della Madonna della Rocca.

I primi ad occuparsene furono i cappuccini padre Vincenzo Sena da Canicattì e padre Vincenzo Polizzotto da Polizzi Generosa, che poterono contare sull’appoggio del deputato di Caltanissetta, on. Ignazio Testasecca, sposato con una La Lomia, la contessa donna Marietta. Il 23 luglio 1910 i padri cappuccini di Canicattì inviarono apposita istanza all’on. Luigi Luzzatti, Presidente del Consiglio e Ministro dell’Interno. L’istanza fu accompagnata da due petizioni: la prima dei parenti del frate; la seconda di esponenti della società civile canicattinese.

Sulla richiesta dei cappuccini fu chiamato ad esprimere il proprio parere, secondo le leggi allora in vigore, il Consiglio Comunale di Canicattì. Il pronunciamento non fu per nulla scontato. La seduta consiliare si svolse il 22 agosto 1910: il parere favorevole fu concesso, dopo un dibattito assai contrastato, grazie all’abilità oratoria del consigliere avvocato Giovanni Guarino Amella, notoriamente su posizioni progressiste ed anticlericali, mentre dei due sacerdoti consiglieri comunali solo uno, Diego Li Calzi, prese blandamente la parola; l’altro, Ferdinando Aronica – figura assai importante soprattutto nel campo finanziario – non intervenne nemmeno.

Il consigliere socialista Gaetano Rao propose che la salma del cappuccino fosse collocata all’interno dell’Ospedale, allora allocato nell’ex convento dei francescani conventuali. Assai duro l’intervento del consigliere socialista Vincenzo Livatino che votò contro, ritenendo che i cappuccini volessero portare la salma del frate nella loro chiesa “allo scopo di sfruttare la superstizione del popolo di Canicattì e dei paesi vicini e di accrescere quindi i proventi della loro bottega”. Concetti analoghi svolse il consigliere Vincenzo Pontillo. Al termine del dibattito, la proposta dei cappuccini fu approvata con il solo voto contrario del consigliere Livatino.

Il Ministro dell’Interno, con decreto del 15 ottobre 1910, autorizzava la traslazione della salma. Per procedere agli adempimenti successivi, furono subito costituiti un Comitato Generale presieduto dal barone Salvatore La Lomia e un Comitato Esecutivo presieduto dal cav. Ugo La Lomia. Per la realizzazione del monumento sepolcrale fu approvato il disegno acquerellato del canicattinese Antonio Frangiamone.

La traslazione della salma, fissata in un primo tempo per il 22 ottobre 1911, fu rinviata per ragioni igienico-sanitarie. La nuova data fu quindi stabilita per il 21 aprile 1912. Per l’occasione giunse a Canicattì il vescovo ausiliare di Palermo, mons. Pasquale Bova. Alle 10,30 del 21 aprile dal cimitero mosse una folla imponente preceduta da quattro guardie a cavallo in tenuta d’ordinanza, dalle rappresentanze delle associazioni locali, dai religiosi cappuccini, agostiniani, minori osservanti e da tutto il clero secolare. Accompagnavano la salma l’on. Casare Gangitano, deputato del collegio di Canicattì, il regio commissario del Comune Gaetano Cera, anche in rappresentanza del Prefetto di Girgenti e del Ministro Plenipotenziario del Brasile, il barone Agostino La Lomia e gli altri parenti di padre Gioacchino.

In piazza presero la parola i sacerdoti Pagano e Giglio; il corteo, dopo aver sostato in via Galilei, davanti alla casa natale di padre Gioacchino, da cui furono lanciati dei fiori, raggiunse la Chiesa Madre. L’indomani, 22 aprile, nella Chiesa Madre si svolse il solenne funerale, cui partecipò anche il vescovo di Girgenti, mons. Bartolomeo Lagumina. Il rito fu accompagnato da brani di musica sacra eseguiti dall’orchestra cittadina diretta dal maestro Giuseppe Ginex. Al termine delle esequie, il regio commissario, avv. Gaetano Cera, tenne un discorso e consegnò formalmente, a norma di legge, la salma di padre Gioacchino alla comunità dei cappuccini. Un lungo corteo quindi mosse per la parte storica dalla città raggiungendo il convento della Madonna della Rocca. La salma rimase esposta alla venerazione dei fedeli fino alle ore 12 del 6 maggio quando, all’insaputa di tutti, i frati collocarono la bara nel monumento-sarcofago all’interno del sacello.

Alla fine degli anni Sessanta, per favorire al meglio l’afflusso dei visitatori, fu deciso l’ampliamento e l’ammodernamento del sacello di padre Gioacchino. Completati i lavori, la salma, il 5 luglio 1969, fu ricomposta nel sarcofago. Il 6 luglio la cappella sepolcrale – arricchita da pregevoli vetrate istoriate, opera del pittore senese Giuseppe Nenci – fu solennemente inaugurata, al termine di un corteo di fedeli partito dalla piazza IV Novembre, dal Provinciale dei Cappuccini padre Maurizio da Monreale.

Nei primi anni Settanta, con una decisione non da tutti condivisa, fu demolita l’antica e suggestiva chiesa della Madonna della Rocca ed un’ala del vecchio convento – quella confinante con la strada comunale che lo costeggia – per far posto ad un tempio più capiente. Fortunatamente è stato conservato l’antico prospetto. I lavori, iniziati il 9 aprile 1973 – guardiano del convento era allora il P. Vittorio (al secolo Biagio) Agueci da Salemi – si protrassero per alcuni anni. Il nuovo tempio fu consacrato, il 12 dicembre 1982, dal vescovo di Agrigento mons. Luigi Bommarito.

Da anni è in corso la causa di beatificazione di padre Gioacchino La Lomia che, il 23 aprile del 2002, nella Sala Clementina dei Palazzi Apostolici, è stato proclamato venerabile dal papa Giovanni Paolo II.

GAETANO AUGELLO

 

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