Riflessione per l’Avvento e non solo… di don Gino Faragone

I DOMENICA DI AVVENTO-Siamo gli uomini dell’attesa

Riflessione di don Gino Faragone, docente di Sacra Scrittura

A segnare l’inizio dell’anno liturgico è un brano di Matteo tratto dal suo ultimo discorso, conosciuto con il titolo “Discorso escatologico” (24,37-44). Una lettura superficiale e frettolosa del testo e l’annuncio della fine del mondo con immagini tipiche della letteratura apocalittica come catastrofi, guerre, terremoti, carestie, si prestano a suscitare un atteggiamento di paura. Per i cristiani deve essere proprio il contrario: la fine di un mondo segnato dall’ingiustizia e dalla violenza deve generare un clima di vera gioia. I toni minacciosi utilizzati nel testo devono servire unicamente a scuotere le coscienze e ad accogliere questa ulteriore opportunità, che ci viene offerta da Colui a cui spetta l’ultima parola, quella definitiva, sul mondo. Inizia il nuovo anno liturgico e comincia con un riferimento preciso alla notte, al tempo dell’attesa del nuovo giorno, al tempo della sofferenza e dell’incomprensione, al tempo della paura, al tempo del sospetto, al tempo del silenzio. Tempo signoreggiato dalla potenza della morte, apparente dominatrice di tutto. Da questa oscurità aspettiamo la luce del nuovo giorno. E questo giorno arriva con la venuta del Signore Gesù. Ricordiamo che per la liturgia della Chiesa il giorno comincia dalla sera. Sono quattro le notti più significative che celebriamo: la prima è quella in cui viene creata la luce, poi quella in cui Dio conclude un patto di alleanza con Abramo, segue poi la notte di Pasqua, del passaggio di Dio per la liberazione d’Israele e infine la notte della venuta del Messia. L’Avvento ci permette di vivere questi due momenti: la consapevolezza di un passato dominato dalle tenebre e il futuro atteso come tempo della luce. Noi siamo gli uomini dell’attesa, proiettati verso gli ultimi tempi. Non lasciamoci turbare dagli annunci catastrofici di tanti falsi profeti, che puntualmente sorgono per alimentare un clima di inutile paura, non seguiamo il falsi messia presenti in tutto il territorio che soffocano il desiderio verso un mondo più giusto. Il futuro può essere temuto solo da chi ha la coscienza di avere giocato in modo sporco, da chi è sceso a continui compromessi per conservare la poltrona del potere, da chi è interessato unicamente a far carriera. Davvero è tanta la corruzione in giro, che pare sia diventata una nostra seconda pelle. Per i cristiani l’Avvento è il tempo dell’attesa di Colui dal quale aspettiamo la pienezza della vita. Sguardo dunque verso il futuro, verso ciò che attendiamo.

La prima lettura della liturgia (Is 2,1-5; cfr Mi 4,1-3) con una serie abbondante di verbi di movimento traccia un itinerario ben preciso verso il monte del Signore. Se a Babele gli uomini, che pretendono di salire in alto per arrivare fino a Dio, vengono puniti e dispersi in ragione del loro orgoglio, a Gerusalemme invece tutti i popoli sono radunati per un cammino verso l’unità, in ascolto della Parola del Signore. E’ la stessa Parola ad uscire dalla casa del Signore per andare ad abitare tra gli uomini. E’ Dio che compie un esodo per ristabilire una piena comunione con gli uomini. L’oracolo di pace giunge dopo un giudizio severo nei confronti delle tante ingiustizie denunciate nel capitolo precedente: corruzione ovunque, giustizia calpestata, sete di potere, voglia di guerre, poveri sempre più bistrattati, tempi bui, crisi religiosa profonda, ripiegamento sugli idoli, sicurezze cercate nel mondo della magia e della superstizione. I tempi di oggi non sono molto diversi da quelli vissuti e descritti dal profeta Isaia. Anziché un duro castigo arriva una parola di consolazione: «Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e s’innalzerà sopra i colli e ad esso affluiranno tutte le genti». Il Signore suscita una forma di gelosia nel suo popolo: non castiga i nemici d’Israele, ma permette a tutti i popoli di salire verso il monte del suo tempio. Sorprende e non poco l’immagine di un popolo che come un fiume scorre verso Gerusalemme. Un’immagine davvero sorprendente, perché i fiumi non vanno verso i monti, scendono invece dai monti. E qui si può scorgere l’intervento straordinario di Dio, come quando separò le acque per far passare Israele verso la terra di libertà. Si prospetta un’era di pace, perché le armi saranno trasformate in strumenti di lavoro e  perché tutti i popoli si lasceranno istruire e giudicare dalla parola del Signore. Accogliamo l’esortazione dell’apostolo Paolo che ci invita a gettare via le opere delle tenebre per indossare le armi della luce (cfr Rom 13,12).  E’ tempo di svegliarci, perché la nostra salvezza è davvero vicina.

Il testo del vangelo ci esorta a costruire il futuro a partire dall’oggi, dal presente. Se vogliamo capire il presente dobbiamo guardare lontano, le ultime realtà. Gesù esorta i discepoli alla vigilanza e all’impegno. Tentare di giustificarsi solo in ragione dell’ignoranza del momento preciso della sua venuta non serve a niente. Siamo frastornati da tanti falsi profeti, che ci raggirano e ci promettono una felicità facile ad essere conquistata e a basso costo. Troppo tardi ci si accorge che l’unico obiettivo era riempire il loro portafoglio. Il pericolo è serio e potremmo non renderci conto del pericolo che stiamo attraversando. Se vogliamo comprendere meglio il testo, è opportuno ricordare il contesto in cui il brano è collocato. Gesù è a Gerusalemme e nel tempio scaccia tutti quelli che vendevano e compravano, fortemente denuncia le autorità religiose, guarisce ciechi e storpi, piange sulla città, incapace di accogliere gli inviati di Dio, parla della distruzione della città, del tempio  e di tutte le altre forme di potere. Questa distruzione segnerà l’inizio di un’era nuova. I discepoli sono invitati non ad avere paura, ma ad assumere un atteggiamento di serenità.

Improvvisa venuta del Figlio dell’uomo

«Gesù disse ai suoi discepoli: “Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo».

Gesù, pure accentuando il carattere dell’imprevedibilità della fine, esorta i suoi discepoli a non desiderare ruoli speciali per conoscere meglio i segreti del Regno, ma ad avere unicamente l’interesse di compiere la volontà del Padre. Gesù abbina la sua venuta a quella di Noè (cfr Gen 6-8). Il diluvio qui chiaramente non sta ad indicare la distruzione dell’umanità, ma l’inizio di una nuova umanità. Si tratta dunque di una proposta di salvezza. I contemporanei di Noè conducevano una vita assolutamente normale, mangiando, bevendo, sposandosi e facendo figli, come se niente dovesse accadere, senza nessuna percezione della storia, senza rendersi conto dell’imminente evento del diluvio, senza armonizzare gli impegni quotidiani con il progetto di Dio. E questo ha impedito loro di accorgersi dell’evento straordinario del diluvio. Non sono descritti come gente cattiva. Si tratta di atteggiamenti del tutto normali, dominati però dall’”io”. E questo “io” prende moglie, prende marito: un linguaggio possessivo, quasi aggressivo. Chi vive in questo modo, anche se non se ne rende conto sta procurandosi la morte. Ricordiamo che il nuovo rito del matrimonio sottolinea il dono dell’accoglienza, piuttosto che il possesso (non “prendo te”, ma “accolgo te”). Gli eventi sono misteriosamente collegati tra la libertà dell’uomo e la volontà divina. Gesù ribadisce il carattere improvviso della sua venuta. paragonandolo all’esperienza del diluvio. Il testo di Genesi sottolinea la malvagità degli uomini prima del diluvio, il nostro testo presenta invece una situazione di assoluta normalità. “I giorni di Noè” sono i giorni in cui Noè e la sua famiglia trovano scampo e salvezza nell’arca.  Ma sono ugualmente giorni in cui molti non si sono accorti di nulla, non hanno percepito l’imminenza del diluvio e perciò sono morti. E così il diluvio segna l’inizio di un mondo nuovo. Il Signore viene, come ai tempi di Noè, mentre viviamo compiendo le attività quotidiane. I discepoli, così come già Noè, si salveranno se sapranno costruirsi un’arca, ovvero se confideranno in Gesù e osserveranno la legge del Signore. Un invito dunque alla vigilanza per attendere la venuta del Figlio dell’uomo.

Incertezza della data

«Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata. Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».

Precedentemente il testo sembrava alludere ad una data imminente della fine, ora è più manifesta l’incertezza della data. Gesù presenta alcune coppie che saranno segnate da una separazione. Nella nostra esperienza, quante volte abbiamo constatato che in certe disgrazie una persona muore e un’altra rimane illesa. Non resta che vegliare, con gli occhi bene aperti, senza farsi ingannare da nessuno. Veglia chi aspetta qualcuno, qualcosa. Il giudizio di Dio è imminente e il tempo a nostra disposizione è sempre più ridotto. L’esortazione di Gesù mira non a incutere paura, ma a proporre una via di salvezza, un’arca dove tutti potranno rifugiarsi. Gesù non minaccia castighi, ma ci richiama ai veri valori della vita. Famiglia, salute, denaro, lavoro non possono essere gli unici valori su cui impostare la nostra esistenza. Bisogna imparare a mettersi a servizio degli altri. Non possiamo scartare Dio dalla nostra vita. Il testo conclude con un’altra immagine, quella del ladro, per rappresentare l’improvvisa venuta del Figlio dell’uomo.

Salviamo il futuro se scegliamo bene oggi

Possiamo ricominciare, se abbiamo un futuro da attendere, se siamo sostenuti dalla misericordia di un Dio, che chiude gli occhi davanti alle nostre debolezze in attesa di una nostra nuova ripresa a camminare nelle sue vie. Noi non siamo tanto disposti ad attendere, perché riteniamo l’attesa un tempo morto. Dio sa attendere, rispetta i nostri tempi. Siamo chiamati, come Noè, a gesti coraggiosi, gli unici che possono salvare il futuro, anche se dobbiamo affrontare l’incomprensione di chi non sa condividere le nostre scelte. Non possiamo certamente evitare le calamità, ma possiamo affrontarle, se ci prepariamo, se costruiamo un’arca in cui custodire i beni che ci serviranno domani. Non possiamo rimpiangere un passato che non torna, ma possiamo costruire un futuro più sereno per le future generazioni. Impariamo dalle donne ad attendere, a coniugare questo verbo come espressione di un infinito amore, come un tempo per guardare più lontano, più in alto. Se vogliamo arrivare là, apriamo bene gli occhi ora. Con gli occhi chiusi non si va da nessuna parte. Noi viviamo come i contemporanei di Noè se non ci accorgiamo di chi ci vive accanto, di chi da anni ormai è a letto, di chi disperatamente va alla ricerca di una terra più ospitale, se non moviamo neppure un dito nei confronti di chi danneggia l’ambiente. Non possiamo vivere se non ci accorgiamo dei volti sfigurati, delle tante donne vendute, dei tanti precari senza speranza. A molti abbiamo rubato anche il sogno di un futuro. Spetta a noi costruire un’arca di fiducia, di sicurezza, di speranza.  Non possiamo lasciarci perciò paralizzare da falsi profeti, da falsi messia, che soffocano l’anelito verso un mondo migliore. La venuta del Figlio dell’uomo può essere temuta solo da chi non è a posto con la giusta amministrazione della propria vita; ma chi è saggio e vigile non può che attendere con ansia Colui dal quale ci si aspetta la pienezza della vita. Gesù non minaccia castighi, ma ci richiama ai veri valori su cui costruire la nostra vita. Comprendiamo certo il valore della famiglia, della salute, del denaro, del lavoro, ma c’è anche altro su cui basare la propria esistenza. Non lasciamoci perciò prendere dalla routine della vita quotidiana. Senza Dio non possiamo far nulla (cfr Gv 15,5), non possiamo avere garanzie sul nostro benessere: “Se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori. Se il Signore non vigila sulla città, invano veglia la sentinella” (Sal 127,1).

Don Gino Faragone

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